Si parte, ci si muove, si va
all'università, si fugge.
Facendo le valige, pronti ed impauriti,
per il primo semestre di prova d'indipendenza, qualche fuorisede
si sbilancia, lasciandosi andare ad affermazioni forti e cariche di odio e ostilità
verso la propria cittadina di origine.
<<Non mi vedrete mai più>>
sbuffa il diciannovenne frustrato, tra i denti, mentre prende il treno che
lo condurrà verso un nuovo capitolo della sua vita.
Molti di
coloro che partono, "costretti", in prospettiva della conquista del diploma di Laurea, considerano, però, il distacco più doloroso che altro;
ciò che andranno ad affrontare sarà solo la parentesi che li terrà
lontani dalle loro radici, dal loro territorio, da situazioni
ripetitive ma che li fanno sentire in un Cocoon, protetti, dalle ali
delle loro madri e dalla familiarità dei loro posti.
Tuttavia, vi
assicuro che, in mezzo a questa mandria di malinconici, terrorizzati
dal cambiamento, c'è una ristretta enclave di risentiti, di ragazzi
che mentre guardano fuori dal loro finestrino, dondolati da un treno
che odora di fumo e fabbrica, coltivano, dentro di sé, un
sentimento più acre che altro.
Io, 5 anni fa, ho fatto 3
grandi valige, piene di libri, vestiti, piene di tutto. Ho girato il
mio colloso culo e me ne sono andata, sputando un colossale <<Spero che moriate
tutti male, luridi stronzi; spero che questa cittadina muoia, razza
di bastardi>>.
La mia città non mi aveva dato molto. L'amavo,
perché aveva il mare, ma la salinità della gente mi aveva fatto
venire sete di altro, tutta quell'aridità scavava e non dissetava.
L'ho sempre vista, come una città fantasma, i cui abitanti,
privi di sentimenti, come dissennatori, mi rubavano la linfa vitale.
Mentre me ne andavo via, 5 anni fa, la guardai e dissi <<Meriti
di spegnerti>>.
Qualche giorno fa il mio desiderio -scaturito
da un incontenibile richiesta di vendetta, per due vite, la mia e
quella di mio fratello, che non avevano ricevuto il dovuto riguardo-
è stato esaudito.
Piombino si è spenta. L'altoforno, senza
più fondi, senza più alcun finanziamento, come se non avesse più
alcuno scopo, ha emesso l'ultimo sibilo, l'ultimo fiato, come un
gigante stanco a cui non gli si da più di che cibarsi.
Il tumore
che feriva la mia grigia, triste, città giace ancora lì, inerte.
La feriva, emettendo fiamme e fumi inquietanti, di colore
post-apocalittico; ma la nutriva, nutriva i suoi abitanti, che
odiavano quel mostro lugubre che si mostrava imponente e
imperturbabile all'entrata della città; quando varcavi le sue porte, avevi l'impressione di avere
messo piede nella terra di Mordor, o,
gettando lo sguardo verso il centro, che un libro di Dickens avesse trovato il modo di
tradursi, nel XX e poi, successivamente, nel XXI secolo.
Nessuno è più interessato a
lui: troppi debiti, troppe incombenze. Escludendo il suo aspetto,
oramai, è attraente quanto una vecchia megera che tenta ancora di
prostituirsi, sperando di raccimolare qualcosa, per andare
avanti.
Non credevo che potesse mai davvero accadere e, quando mi è giunta
la notizia, la nuca ha visto la sua peluria drizzarsi, insieme al
raggelarsi del mio sangue. Mi sono sentita in colpa, come se quel
desiderio recondito, che ho alimentato per tutti questi anni, potesse aver avuto conseguenze effettive, alla
conclusione dei fatti.
Quel che accadrà, pare superfluo
ricordarlo, ma sottolinearlo è quasi un dovere.
Padri di
famiglia; uomini trentenni che aspiravano a diventarlo;ragazzi;
chiunque orbitasse intorno a quel grande altoforno ha visto
spegnersi, insieme al suddetto, anche il proprio futuro, i propri
sogni, sfumati, insieme all'ultima nube di scorie prodotta. Non
avranno avuto sogni di gloria di chissà quale rango. Chi è rimasto
là, ha imparato a non puntare troppo in alto, ha ridimensionato i propri sogni,
plasmandoli con realismo.
Ma questo non li rende inferiori ai miei.
Sono padri di
famiglia di ragazzi/e che ho odiato, detestato e che mi hanno
regalato un'adolescenza di emarginazione. C'é da dire che altri sono sconosciuti,
amici, fidanzati, padri, mariti di ragazze con le quali, in fin dei
conti, ho avuto un buon rapporto.
Le rate dell'Università
rimarranno insolute. I mutui non si prosciugheranno soffiandoci
sopra, né, tanto meno, le bollette del gas si risolveranno, dando
fuoco a qualche ebreo.
Gli obiettivi, le poche speranze, che già
si erano imparate a ridimensionare, svaniranno, circoscrivendo il
tutto alla mera sopravvivenza.
Piombino- circondario
compreso- è una città orribile perché ha fatto morire mio
fratello; l'ho sempre considerata la colpevole della morte di un
innocente. Così come ne sono responsabili i suoi abitanti. E' una
città che ha coltivato, a forza di indifferenza e inedia, la mia
tristezza, il mio cinismo, il mio disprezzo per il prossimo, è
quella che ha forgiato la corazza difensiva che mi porto con fatica
addosso.
E' una città alla quale, tuttora, dico, sebbene con meno
furore e frustrazione: <<Non tornerò più da te, mi spiace>>. La
mia vita so che sarà altrove. Non so ancora bene dove. Ma non lì.
Ho
imboccato una via il quale sbocco so non essere quel promontorio
bellissimo, suggestivo, che si affaccia sull'Isola d'Elba. Tuttavia, a quell'imperativo categorico, usato a mo' di monito verso me stessa, con il tempo ci ho
aggiunto un 'mi spiace', perché gli anni e la lontananza, e in
qualche senso, quel latente, sporco e sottocutaneo senso di
appartenenza, mi hanno insegnato ad amarla.
Piombino è la morte di
mio fratello, è vero.
Ma a Piombino ho anche amato.
Piombino
ha un tumore interno, che non è tanto l'acciaieria quanto
l'ipocrisia dei suoi abitanti, ma ha un mare fantastico.
E poi, se Piombino muore, io con chi me la posso prendere?!
Il capro espiatorio mi serve vivo, se muore non c'è più gusto.