sabato 5 ottobre 2013

Il ritorno del fuori sede. Parte 1

115 Km non sono tanti. Sono quelli che mi separano da “Casa”, sono quei 115 km che mi legittimano a dire che sono ufficialmente fuori sede.
Si, lo so. Il mio ritorno non è apocalittico, neppure epocale, non permetterei mai di paragonare il mio rimpatriare, al ritorno da fuori sede di un ragazzo che deve buttarsi in spalla e nella valigià 300 Km o più, di chi, pluasibilmente, deve attraversare un'intera Italia. In fondo io posso tornare quando voglio. Un'ora e mezzo e posso già respirare il Salmastro e le Acciaierie. Il romanticismo e l'industria.
Premesso questo, mi sento una fuorisede a tutti gli effetti. Sono vicina, geograficamente, ma con il cuore lontano e lo sguardo proiettato ancora più in là, dietro l'orizzonte; la mia condizione di studentessa esterpitasi da dove è cresciuta, quindi, è pari all'esperienza di un siciliano, o quasi.
Non torno mai, o cerco di farlo raramente, ma quando torno ci sono delle piccole che cose che mi fanno capire che sono rimpatriata, delle piccole sensazioni o “cose eccezionali di tutti i giorni” che vivo, immersa nella bolla di sapone di situazioni che non mi appartengono più, ma che si ripresentano, come un Revival.
C'è il pranzo fritto da mia nonna: 3000 calorie di unto in un solo piatto. Mia nonna, una Big Mama bianca che sistematicamente si dimentica che alla nipote manca un organo fondamentale per la digestione dei grassi, così decide di condannarla alla morte per trombosi. Pranzi infarciti dalle grandi discussioni sulla politica con mio padre, comunista disilluso, informato e pragmatico, che con il cuore getta ancora uno sguardo di amarezza a quelle idee che condivideva insieme a una folla di giovani pieni di speranza, convinti che la rivoluzione sarebbe stata DOMANI.
Davanti alla televisione e, quasi sempre, davanti a un piatto fumante di tortelloni fatti in casa, al ragù di cinghiale, commentiamo le notizie; mi da la sua opinione, mi informa degli ultimi eventi che intasano il mondo; a Pisa conosco lo scorrere degli uomini tramite sporadiche notizie catturate dal Web, inglobata come sono dai miei libri di Storia, mi perdo nel passato, lasciandomi sfuggire il presente, avvolta nella mia vita frenetica.
Sorridiamo, ironizziamo e ci arrabbiamo, usando come armi di offesa le nostre idee differenti, dettate da quasi due generazioni che ci separano. All'altro capo del tavolo la 3° generazione mangia rumorosamente il brodo, lo sguardo è vacuo, “IMU” “Crisi” “Femminicidi” “Spread”, parole chiave con un significato vuoto. Chissà se a 86 anni pure io avrò il suo stesso disinteresse.
Magari mentre apostrofo mio padre, dandogli del “venduto alla sinistra troppo moderata”, gli chiedo se può passarmi i fiori fritti, passando così dal tono di comizio al tono filiale nel giro di una frase. Un gioco delle parti che ci irrita e ci infuoca gli animi, ma ci diverte.
Poi prendo in mano “Il Tirreno”, giornale che posso leggere solo qui, d'altra parte non lo comprerei mai altrove, di spontanea volontà. Commento rifletto e leggo sulle informazioni locali riportate; roba distante di un posto che in parte è ancora “Casa”, ma che piano piano si sta trasformando in un ectoplasma che mi guarda ma non mi sfiora, se non nel sentimento.
Il ritorno è il caffè con i 'FrùFrù' a casa di nonna, lettura sul terrazzo, quando il tempo e la temperatura lo permettono, mentre nella cucina, a pochi metri, grossi voci rimbombanti recitano in una Telenovelas dal dubbio senso estetico.

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